Riportiamo l’articolo a firma del Presidente Antonio D’Amato pubblicato sul Foglio il 28 febbraio 2024
L’Europa sta vivendo una delle fasi più drammatiche dalla fine della seconda guerra mondiale. Per la prima volta, la pace che davamo per un valore acquisito è minacciata in maniera sempre più grave. Abbiamo la guerra in casa nel nostro Continente e, alle porte di casa, nel Sud dell’Europa e nel Mediterraneo. Al tempo stesso, stiamo vivendo la crisi economica più grave dal dopoguerra, in quanto crisi non finanziaria, ma strutturale e di competitività, ben diversa da quella importata dalla crisi dei subprime americani del 2008 o da quella indotta dalla pandemia. Oggi risultano sempre più evidenti le contraddizioni e soprattutto le debolezze competitive dell’economia e dell’industria europea, accumulate nel corso degli ultimi quindici anni e che hanno registrato un’accelerazione violenta con il Green Deal e le sue forti derive ideologiche, con la conseguente deindustrializzazione del nostro Continente.
Questa crisi dell’economia e dell’industria europea nasce da tre errori fondamentali. Il primo è quello di aver creduto che, nella nuova fase della globalizzazione, l’Europa potesse continuare a rimanere l’area di maggiore qualità della vita, di welfare, di democrazia e civiltà del pianeta pur delocalizzando le proprie attività produttive nelle regioni del mondo a basso costo. Ci siamo illusi di poter rimanere gli esclusivi detentori del progresso, della ricerca e dell’innovazione scientifica e abbiamo dimenticato la più importante lezione della storia dello sviluppo industriale: ricerca, crescita, innovazione e manifattura camminano di pari passo e sono inscindibili. La conseguenza è stata quella di aver perso intere filiere industriali e al tempo stesso capacità di ricerca, innovazione e sviluppo. Il secondo errore è stato quello di avere accentuato, dalla metà del decennio scorso, il vizio della iper-regolamentazione europea, imponendo zavorre competitive che hanno costretto soprattutto le industrie di base a ricollocarsi ai confini dell’Europa e libere di fare dumping sociale, valutario e soprattutto ambientale. Fino ad arrivare ai giorni nostri, al terzo errore, e cioè al Green Deal che, cavalcando il “main stream” che individua nello sviluppo industriale la causa principale dell’emergenza climatica, ha prodotto una messe di provvedimenti legislativi, direttive e regolamenti che ha travolto tutte le filiere economiche e produttive, accelerando così il processo di impoverimento dell’Europa.
Tutto questo senza le necessarie valutazioni di impatto ambientale, sempre in assenza di neutralità tecnologica e con l’illusione di ritornare ad un’economia silvestre che non ha nessuna sostenibilità né economica né sociale. Soprattutto ha prodotto gravi contraccolpi negativi sia sul piano dell’impatto ambientale sia sull’autonomia e l’indipendenza stessa dell’economia e della società europea. Basti pensare a quello che è successo sul fronte dell’industria automobilistica, della tassonomia, dell’agricoltura, della chimica, della farmaceutica, della protezione della proprietà intellettuale, fino ad arrivare al regolamento sugli imballaggi che proprio in questi giorni è nella sua fase decisiva. Questo regolamento e la vicenda della tassonomia rappresentano gli esempi più rilevanti dell’erraticità e della contraddittorietà della regolamentazione europea che in questi anni di green deal ha fatto vere e proprie inversioni a U rispetto alle direttive europee precedenti sulle quali i Paesi membri e il sistema dell’industria avevano investito massicciamente per contribuire a rendere l’Europa la realtà più sostenibile dal punto di vista ambientale del pianeta. Tant’è che oggi noi rappresentiamo solo il 7% delle emissioni a livello globale.
Occorre a questo punto chiarire che chi scrive è un europeista convinto ed è stato in prima fila nel promuovere le ragioni di un’industria sostenibile, non solo dal punto di vista economico ma soprattutto dal punto di vista ambientale.
Ma l’Europa nella quale chi scrive crede è fondata, innanzitutto, su valori e ideali che rappresentano il portato fondamentale della nostra civiltà e della nostra storia e la garanzia indispensabile per la difesa della pace e della democrazia. L’Europa dei padri fondatori fu costruita nel dopoguerra sulle promesse di sicurezza, crescita e prosperità ma si basò in primo luogo sul rafforzamento dell’economia e dell’industria come elemento indispensabile per provvedere al benessere e quindi alla coesione sociale delle popolazioni provate dai disastri della guerra. Paradossalmente quello che sembra oggi caratterizzare il comune sentire europeo è soprattutto l’eccesso di demagogia e ideologia che ha segnato, in particolare, questa legislatura. Mentre il mondo si attrezza in maniera sempre più aggressiva per competere e le tensioni nei rapporti internazionali sono contraddistinte da un crescente livello di conflittualità, l’Europa resta chiusa all’interno della propria bolla di autoreferenzialità ed è sempre meno capace di valorizzare le ancora importanti risorse di cui dispone per recuperare un ruolo fondamentale nel contribuire a portare più stabilità e pace a livello globale.
Mai come ora abbiamo bisogno di più Europa, ma di un’Europa più unita nei suoi valori, più competitiva dal punto di vista economico, più forte dal punto di vista istituzionale e quindi più rilevante dal punto di vista politico. Come la storia ci insegna, senza forza economica non c’è forza politica. Per questo la prima delle urgenze è rilanciare la competitività del sistema industriale europeo. Già da qualche mese la Von der Leyen si è resa conto della necessità di rendere più competitiva l’Europa ed ha chiesto a Mario Draghi di predisporre una strategia e un piano di azione. Ma attenzione, mentre si studiano gli interventi da mettere in campo sono in approvazione, ancora in queste ultime settimane, provvedimenti che impatteranno in maniera negativa sulla competitività dell’Europa.
Occorre quindi agire subito per evitare ulteriori danni. Le prossime elezioni europee saranno fondamentali per affrontare i grandi temi dell’Europa che vogliamo costruire. Quando l’Europa delle ideologie e della demagogia vince su quella degli ideali e dei valori, saltano la coesione sociale e la tenuta politica e istituzionale, la democrazia soffre e la pace è a rischio.