Dalle prime battaglie dei Giovani Imprenditori al vertice di Confindustria: Antonio D’Amato racconta sfide, visioni e la forza di una leadership autonoma e riformista.
Sono le dieci del mattino, nella sede della Fondazione Mezzogiorno in Piazza dei Martiri a Napoli. È qui che Antonio D’Amato mi accoglie con la sobrietà e l’energia che lo contraddistinguono. Sul tavolo le prime storiche locandine del Convegno di Capri, tra le mani i volumi, di un elegante tela marrone, che contengono la preziosa collezione dei numeri di Quale Impresa e che custodiscono anni di storia associativa. Insieme sfogliamo quelle pagine e così riaffiorano memorie, tesi, battaglie di idee, nonché il primo editoriale e il primo numero diretto da una donna, Marilù Faraone Mennella, imprenditrice napoletana e moglie del Presidente.
È da qui che prende avvio la nostra conversazione.
Dal suo primo incarico istituzionale nel 1982 come Presidente del Gruppo Giovani Imprenditori della Campania, passando per la presidenza nazionale dei Giovani Imprenditori dal 1986 al 1990, fino alla guida di Confindustria tra il 2000 e il 2004, ha attraversato molte tappe della storia associativa, vivendo in prima persona momenti cruciali per l’impresa italiana. Quali erano i temi caldi di quegli anni?
In quegli anni il vero nodo da sciogliere era la rottura del blocco consociativo che paralizzava il Paese e impediva quelle riforme sociali, economiche e istituzionali necessarie per rilanciarne la modernizzazione e la competitività.
Dall’autunno caldo del ‘69, lungo tutto il corso degli anni 70, e per buona parte degli anni 80, l’Italia è vissuta sotto una vera e propria cappa di piombo, caratterizzata da forti tensioni sociali e soprattutto dalla tremenda stagione del terrorismo che aveva messo a seria prova la stessa tenuta democratica del Paese.
Con i governi di solidarietà nazionale e la ricerca di una pace sociale attraverso un maggior dialogo tra governo, imprese e sindacati si era progressivamente scivolati dalla concertazione al consociativismo. Si è finito col dare al sindacato e, in particolare, alla Cgil, un vero e proprio diritto di veto ad ogni innovazione sul piano delle riforme necessarie a modernizzare e rendere più competitiva l’Italia.
Erano gli anni dei lacci e lacciuoli che sono sempre di più diventati dei veri e propri nodi scorsoi che strangolavano la capacità di crescere e competere a livello internazionale del sistema industriale italiano. La stagione del blocco consociativo ha caratterizzato le dinamiche politico-istituzionali per due decenni, fino alla fine degli anni ’90.
Io sono sempre stato convinto, sin dai tempi dei Giovani Industriali, che il ruolo fondamentale di Confindustria sia quello di promuovere la competitività e le riforme del sistema Paese per consentire la crescita delle imprese, dell’occupazione, dell’economia italiana, perché è solo così che si creano quelle risorse indispensabili per realizzare progresso civile, equità e pace sociale.
Occorre il confronto, anche duro, tra le parti, ma con un principio chiaro: l’accordo si fa con chi ci sta, senza riconoscere ad alcuna delle parti sociali diritti di veto che negano i principi fondamentali della democrazia parlamentare.
Come riuscite a superare quel blocco e rompere quelle ingessature consociative?
Allora, come Giovani Industriali, affrontammo in maniera forte e chiara le questioni cruciali del blocco politico sociale e istituzionale che paralizzava il Paese.
Anni dopo, da presidente da Confindustria le riforme di cui parlavamo nei convegni dei Giovani Industriali le abbiamo realizzate davvero: la riforma del mercato del lavoro e il superamento dell’articolo 18, con l’eliminazione dei vincoli alla crescita delle imprese; la riforma dello stato sociale e la riforma delle pensioni, per rendere più sostenibile il welfare italiano; la legge obiettivo per accelerare le procedure autorizzative e superare i veti incrociati generati dalla riforma del titolo V della Costituzione; l’avvio della riforma fiscale con la definizione dello statuto dei contribuenti e di politiche per favorire il reinvestimento degli utili delle imprese.
Quali furono i temi di quei primi incontri di Capri?
Il primo convegno di Capri, nel 1986, fu su “Occupazione, innovazione e sviluppo”, i successivi furono “Oltre lo Stato assistenziale per un nuovo Stato sociale” (1987),“Crisi della rappresentanza e della governabilità” (1988) e l’ultimo della mia presidenza fu “Imprese, partiti e istituzioni” (1989), nel quale ponemmo in maniera molto forte il tema del superamento del sistema proporzionale e promuovemmo la causa del sistema maggioritario. Già allora parlavamo della riforma della forma di governo, anticipando temi che sono ancora oggi al centro del dibattito politico e istituzionale.
Naturalmente la nostra spinta riformatrice si esprimeva non solo a Capri ma anche a Santa Margherita Ligure. Erano due momenti, in estate e in autunno, nei quali in un continuum ideale non solo ponevamo a noi stessi, come sistema industriale, e al Paese, interrogativi ma soprattutto cercavamo di dare delle risposte. Ricordo tra vari convegni di Santa Margerita, tre in particolare: “La produzione di servizi pubblici. Dall’assistenza al mercato. Il rapporto tra pubblico e privato” (1987); “1992: l’Italia e la sfida internazionale” (1988), “Dove va il Capitalismo italiano?” (1989).
Le tesi dei Giovani Industriali e i dibattiti dei nostri Convegni aprirono confronti e scontri significativi dentro e fuori Confindustria, proprio perché intervenivamo in modo puntuale sui grandi nodi e sulle profonde contraddizioni del sistema Paese.
Nel 1986 era Presidente del Gruppo Giovani dell’Unione Industriali di Napoli e l’anno dopo, divenne Presidente Nazionale dei Giovani di Confindustria. In quegli anni prese forma il Convegno di Capri, che proprio quest’anno celebra la sua 40ª edizione. Può raccontarci come nacque e qualche curiosità legata alle prime edizioni?
Il primo incontro fondativo del Convegno di Capri fu nel 1985, quando ero Vicepresidente nazionale dei Giovani Imprenditori. L’obiettivo che ci animava era dare voce a temi che fino ad allora erano rimasti ai margini del dibattito pubblico. Capri fu scelta come luogo simbolico, soprattutto per il Mezzogiorno: volevamo creare un appuntamento di grande visibilità, capace di accendere i riflettori su questioni cruciali.
È vero che non avevate risorse per organizzare il convegno? Come riusciste a realizzarli?
Non avevamo risorse economiche e non volevamo dipendere da nessuno. Per mantenere la nostra libertà inventammo la formula delle sponsorizzazioni: i convegni venivano sostenuti dalle imprese, ma con una regola ferrea: chi sponsorizzava non parlava. In questo modo tutelavamo la nostra indipendenza, sia da Confindustria sia dagli sponsor stessi. È una regola che ho mantenuto anche più tardi, da Presidente di Confindustria. Chi ha l’onore di sponsorizzare, ha l’onere di non parlare.
Fu determinate l’impegno e la passione dei Giovani Industriali del Comitato Interregionale del Mezzogiorno, che dal nulla e senza mezzi riuscì in pochissimo a far nascere e crescere il Convegno di Napoli. Il Presidente del Gruppo dei Giovani Industriali di Napoli di allora era Marilù Faraone Mennella. Allora condividevamo ideali e passioni, negli anni successivi abbiamo condiviso molto di più.
Nel precedente numero di Quale Impresa abbiamo riflettuto su come, accanto al tema del “passaggio generazionale”, stia emergendo sempre più quello della “convivenza generazionale”: generazioni diverse che lavorano insieme, mettendo a sistema competenze, esperienze e visioni differenti. Secondo Lei, è possibile e auspicabile costruire una leadership imprenditoriale basata su questo modello?
La convivenza — così come il passaggio generazionale — si declina sempre caso per caso, azienda per azienda, famiglia per famiglia, persona per persona.
Le situazioni migliori sono quelle in cui si lavora insieme e si cresce insieme: in questo modo il passaggio generazionale diventa più naturale. Tuttavia, perché il passaggio sia solido e duraturo occorre anche una governance adeguata, con regole chiare e strutture manageriali professionali. Le aziende di una certa dimensione non possono basarsi solo sulle doti del fondatore: la capacità di rischio che caratterizza chi crea l’impresa non sempre coincide con le capacità necessarie a farla crescere e sviluppare. Ogni fase richiede competenze e doti diverse — quelle del fondatore, dello sviluppatore, dell’implementatore — perché l’impresa è un organismo vivo, che cambia continuamente in base all’evoluzione del mercato, della concorrenza e del contesto esterno.
Nelle aziende familiari, che costituiscono l’ossatura più robusta del sistema industriale italiano, convivenza e passaggio generazionale rappresentano un momento cruciale. In quel frangente servono rigore e lucidità: bisogna saper valutare se l’azienda è davvero in buone mani, al di là dei rapporti familiari. Come diceva mio Padre, occorre essere prima di tutto un buon azionista, capace di tutelare il valore dell’impresa e il lavoro di tutti — familiari e collaboratori esterni. Dopodiché, se si è anche un buon imprenditore, tanto meglio. Ma non è necessariamente la stessa cosa.
Nel 2002 è stato nominato Cavaliere del Lavoro, riconoscimento che si aggiunge a un percorso di grande responsabilità nella guida della sua azienda e nei ruoli ricoperti in Confindustria. Guardando indietro, quali sono state le caratteristiche di leadership che le hanno consentito di affrontare entrambe queste sfide? E, secondo Lei, lo stile di leadership nasce da caratteristiche innate oppure è frutto di un percorso che si può allenare e consolidare?
Penso che la leadership sia qualcosa che si deve avere dentro. Certo, ci si può esercitare ad esprimere meglio, ma non è una qualità che si apprende come una tecnica. Leadership significa avere idee forti e chiare, la voglia di esprimerle in maniera autonoma, incisiva e coraggiosa. Questa è la leadership: nell’impresa, sui mercati, nell’innovazione, nella politica e nei rapporti con gli altri. È fatta soprattutto di contenuti solidi e della capacità di affermarli con indipendenza.
Questo non vuol dire rinunciare all’analisi o al confronto, ma evitare di piegare le proprie idee alle convenienze del momento o al “politicamente corretto”, che molto spesso equivale a essere intellettualmente scorretti. Uno degli errori più frequenti, anche nelle nostre organizzazioni, è stato quello di inseguire l’onda lunga del mainstream, non avendo il coraggio di rompere i luoghi comuni e difendere fino in fondo le ragioni dell’impresa e della competitività.
Questo atteggiamento è costato caro a interi settori industriali ma anche allo stesso sistema Italia. Abbiamo subito in anni recenti scelte europee sbagliate, come il Green Deal, che io definisco “Black Deal” perché inquinato da retorica e ideologia antindustriale. Basti vedere quello che è accaduto all’Automotive, o alla schizofrenia regolatoria sulla tassonomia e sulle politiche energetiche, per citare solo gli esempi più evidenti.
Andando un po’ più indietro, penso all’accordo di Parigi del 2015 sui cambiamenti climatici. L’aver accettato passivamente la logica del taglio lineare delle emissioni di Co2 ha fortemente indebolito il sistema produttivo europeo e, in particolare, quello italiano che aveva già fatto moltissimi progressi nella riduzione della propria impronta carbonica rispetto a tutte le altre economie internazionali.
Non sempre tutte le battaglie si vincono, ma alcune vanno combattute comunque. Penso, andando ancora un po’ più indietro nel tempo, al modo in cui è stato realizzato l’allargamento dell’Europa nel 2000, senza ridefinire la governance europea (superando ad esempio il voto all’unanimità), e soprattutto senza far precedere l’allargamento da un un processo di consapevole riconoscimento dell’identità e dei valori costitutivi dell’Europa, da consacrarsi in una Carta costituzionale.
Fu un errore di cui oggi vediamo tutte le drammatiche conseguenze e che vide a quel tempo solo la Confindustria sollevare dubbi e critiche. Erano gli anni della retorica dell’euro-ottimismo e chiunque avesse avuto un briciolo di “euro-realismo” veniva tacciato solo di euroscetticismo.
Ecco perché dico che la leadership è anche la capacità di difendere le proprie idee, i propri interessi e le proprie posizioni nel merito con autonomia, competenze e coraggio. Non sempre la vittoria è immediata, ma se ci si limita a cercare il minor danno possibile, sacrificando idee e visioni di lungo periodo, alla fine si perde tutto.
È per questo che oggi un’organizzazione come Confindustria deve saper tracciare linee chiare, coerenti e di lungo periodo. È questa la strada per accompagnare le imprese, rafforzare la competitività del sistema produttivo e dare un contributo solido alla crescita del Paese.




